L’ideologia del lavoro, nata solamente con l’avvento della Rivoluzione industriale ed esplosa negli ultimissimi decenni fino a diventare sinonimo di “successo” nella vita, dimostra pienamente i suoi limiti. Rimetterla in discussione seriamente è il primo ineludibile passo per provare a liberarsene.
Mi rendo ben conto che nel meccanismo del lavoro siamo incastrati, ma fino a che non ci convinceremo davvero, fino in fondo, che noi non viviamo grazie al lavoro (e per estensione all’economia), ma nonostante il lavoro, non ci schioderemo mai dalla situazione in cui ci troviamo. Semplifichiamo per intenderci. Il lavoro modernamente inteso nasce solo con l’avvento della “Rivoluzione industriale” e trova la sua esaltazione nel liberismo-capitalismo e nel marxismo, cioè le due correnti che nei fatti proprio dalla “Rivoluzione Industriale” prendono piede. Come è andata a finire, in entrambi i casi, è sotto gli occhi di tutti. Il lavoro, occorre dirlo, esprime anzitutto una logica di dominio, sulla Natura e su quegli umani che trasformando la Natura in merci creano il cosiddetto plusvalore. Ovviamente sono tutte stronzate che di per sé non esistono, ma noi ci crediamo e dunque ci sembrano vere, reali, financo logiche e magari pure positive. Insomma, dal momento in cui ci crediamo davvero, è proprio lì che trasformiamo tutte queste stronzate in realtà. Per questo dico che dobbiamo davvero convincerci che noi non viviamo grazie al lavoro (e per estensione all’economia) ma nonostante questo.
Il lavoro prima, riassumendo in pochi concetti basilari un percorso di migliaia e milioni di anni di storia umana sul pianeta, semplicemente non esisteva. Bisogna dunque intendersi su cosa significhi veramente lavorare. Un conto è fare cose che ci servono a vivere e un altro paio di maniche è correre come forsennati per comprare cose, pagare tasse e via dicendo. Se ciò è chiaro, la questione fondamentale diventa che prima si “lavorava per vivere” mentre oggi “si vive per lavorare”. In altre parole oggi si lavora per avere di più, per coprirsi di status symbols, per avere successo, ecc. Grazie (si fa per dire) al lavoro abbiamo sostituito l’avere all’essere. E questo è un fondamentale motivo per cui nel mondo moderno si sta male: perché l’avere non è, né potrà mai esserlo, un riempitivo e men che meno un sostitutivo dell’essere.
Ma il fatto paradossale della modernità, che è ciò che mi scandalizza e mi fa stare male, non è tanto che si lavori (capisco bene che ci sono situazioni in cui si è “costretti” a farlo), ma il fatto che si voglia lavorare, che si adori il lavoro, che gli si voglia bene, il che significa non aver capito che stiamo volendo bene alla nostra schiavitù. Ma al peggio non c’è mai fine e la cosa peggiore di tutte è addirittura che si consideri il lavoro, questo assassino della Vita, qualcosa di “nobile” (“il lavoro nobilita l’uomo”). Non diciamo cazzate. Il lavoro abbruttisce l’uomo e soprattutto lo rincoglionisce; lo rincoglionisce così tanto che l’uomo moderno, stressato, angosciato, depresso, ossessionato dal lavoro, non sa neppure più cos’è la Vita e cos’è vivere. Noi non viviamo, siamo immersi in una bolla artificiale di pseudovita di cui i social network, tanto per dirne una, rappresentano bene l’essenza. Se invece ci fosse rimasto del sale in zucca ce ne staremmo a fare nulla o perlomeno lavoreremmo il meno possibile, perché tutto il tempo che sottraiamo al lavoro è Vita (senza contare che così facendo consumeremmo meno, produrremmo meno, inquineremmo meno, sfrutteremmo e devasteremmo meno, avremmo più tempo per la famiglia, i figli, gli amici ecc.).
Qualcuno però ci ha convinto che il lavoro (e l’economia), ci hanno reso liberi. Anche qui, non diciamo cazzate; dovrebbe essere chiaro il fatto che in una società mercificata l’unica libertà possibile è quella di comprare, ovverossia di scegliere tra dieci diversi tipi di dentifrici. E comunque, visto che nel nostro mondo si fa un gran parlare di “attività di evasione”, “spettacoli di evasione” e chipiùnehapiùnemettadievasione, bisognerà pur domandarsi da cosa dobbiamo evadere? Evade solo chi è in prigione, non chi è libero. Altro che libertà.
Lao-Tzu disse chiaro che “senza fare nulla non c’è nulla che non venga fatto”. Il senso è evidente: se non ci agitiamo come forsennati la Vita (non la mia, la tua o quella di quell’altro, ma la Vita con la maiuscola) va avanti lo stesso e anche meglio.
Resta il fatto che nel nostro mondo il dogma del lavoro è sacro, non lo si può toccare. Figuriamoci, lo abbiamo anche messo a fondamento della nostra costituzione. È anche ovvio che non lo si possa toccare. Perché se lo facessimo l’intero sistema crollerebbe in un amen. Se qualcuno però si preoccupa che “se nessuno fa nulla la società non andrebbe avanti” (magari. Abbiamo bisogno di tutto tranne che di andare avanti), va qui spiegato che rifiutare l’ideologia del lavoro non significa rifiutare il lavoro tout court, ma semplicemente cercare di affrancarsene. Il rifiuto non è del lavoro in sé, ovviamente, bensì dell’ideologia che questo rappresenta; e cioè lo sfruttamento, la devastazione, inquinamento (ambientale e sociale) che necessariamente comporta, nonché la schiavitù di chi lo fa e di chi lo subisce. È anche, ovviamente, il rifiuto di un’economia assassina che sul lavoro (devastazione e schiavitù) prospera. Il rifiuto del lavoro rappresenta insomma un tentativo legittimo e naturale (cioè che asseconda la nostra natura di esseri viventi e liberi) di riappropriarci della nostra vita e della nostra libertà. Per questo il rifiuto del lavoro è sempre attivo e mai passivo.
In ogni caso, e lo scrivo con tutta serietà e a mo’ di invito a una riflessione profonda, gli unici con del sale in zucca sono quei pochissimi popoli della natura rimasti (gli altri li abbiamo fatti fuori tutti), che sono gli unici che non lavorano. A partire dal Saggio sul dono di Marcel Mauss, passando per L’economia dell’età della pietra di Marshall Shalins, per arrivare a Claude Levi-Strauss, Karl Polanyi e tanti altri, possiamo affermare con certezza che i “primitivi” vivevano nell’abbondanza, occupandosi del loro sostentamento in non più di 2-3 ore al giorno, occupazione che era parte del vivere esattamente come il leone si occupa di vivere quando corre dietro alla gazzella (e difatti il leone, così come il “primitivo”, non è stressato, mentre noi sì). Insomma, il “primitivo” non lavora. Vive.
Faremo fatica a tornare “primitivi”, ma ciò non toglie che è sicuramente più sensato ricominciare a guardare indietro piuttosto che continuare ad andare avanti con gli occhi bendati come stiamo facendo. E comunque il primo passo per liberarci della schiavitù del lavoro è convincersi che questo non è altro che una forma di schiavitù e neppure ben mascherata. Bisogna insomma smettere di ringraziarlo, perché, lo ripeto ancora, noi non viviamo grazie al lavoro ma nonostante questo. Male che vada smettere di ringraziarlo significherà smetterla di farci prendere per il culo. Che è già qualcosa.
Andrea Bizzocchi
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