Ci sono autori che hanno fatto la storia della letteratura moderna. Tra quelli a cui è possibile riconoscere senza riserve un tale attributo pochissimi sono ancora in vita e incontrarli rappresenta perciò un evento straordinario. Un grazie pertanto al Comune di Roma che con il Festival Internazionale LETTERATURE, già alla seconda edizione (Basilica di Massenzio dal 21 maggio al 20 giugno) offre, oltre alla possibilità di fruire gratuitamente di ottima letteratura, di vedere taluni di questi numi letterari mondiali.
L’incontro con Doris Lessing, primo autore invitato alla manifestazione, è denso di presagi: il clima della giornata che si annuncia a tratti tempestosa a tratti primaverile, come la complessa biografia della scrittrice, il traffico della città che sin dal mattino sembra più congestionato che mai, come tumultuosi sono gli anni che ha attraversato da protagonista, il fatto che da qualche giorno, prima che sapessi del suo arrivo, stavo rileggendo un suo testo, reperito sulla rete, in memoria di un personaggio, di cui dirò poi, che è stato ingrediente fondamentale della sua esperienza di donna e di scrittrice.
Presagi che accompagnano la comparsa di uomini e donne forti, temprati dalle esperienze della vita prima che dall’attività intellettuale e che da tale fucinatura attingono la magia di far sognare a distanza attraverso il movimento degli elementali piuttosto che delle parole. Del resto la grandezza di un uomo o una donna, anche in maniera indipendente dal loro successo letterario, si misura dal loro rigore d’animo, non certo dagli stilemi estetici che, semmai, possono eventualmente costituire cifra comunicativa di gran livello a patto che riescano a spingersi nella profondità di tale rigore, come accade per la Lessing.
Da un personaggio così forte non c’è mai da attendersi conferme. Meno che mai da questa donna troppo navigata tra le cose del mondo, vissute sulla sua pelle, per arrendersi alle frivolezze da salotto o alle scontatezze delle interviste, troppo intrisa di ricerca interiore per compiacere le attese degli addetti ai lavori anziché esprimere la propria verità raggiunta. Così l’incontro ha mostrato una doppia divertente dimensione: quella dell’autore che, esprimendo se stesso, distrugge i luoghi biografici comuni, e lo spaesamento di chi, intorno, si aspettava probabilmente qualcuno da etichettare secondo schemi riconosciuti; di chi si aspettava, in quanto addetto ai lavori, panegirici intellettuali invece dell’immediatezza dell’empirismo dell’anima.
Il personaggio di cui dicevo sopra è Idries Shah, scrittore e Maestro Sufi, scomparso nel ’96, autore, tra tante cose, del monumentale I Sufi con prefazione, nell’edizione originale inglese, di Robert Graves (in Italia è pubblicato da Edizioni mediterranee). Alla domanda circa l’influenza del Sufismo sulle sue opere Doris ha risposto: “Direi che nessuno dei miei libri è direttamente influenzato dal Sufismo. Questa filosofia opera su un livello molto più elevato di quanto io possa mai sperare di raggiungere. Non è sbagliato notare che ho scritto un libro, Il Taccuino d’Oro(Feltrinelli – 1964), molto prima di venire in contatto con un Maestro Sufi. Ebbene in questo libro peroravo la causa di una visione del mondo che non fosse una suddivisione in compartimenti stagni. Questa visione, come ho scoperto poi, è uno dei cardini del punto di vista Sufi. Tuttavia è ormai molto tempo che mi dedico allo studio del Sufismo e sarebbe strano se tale profonda filosofia non si fosse insinuata indirettamente anche nel mio lavoro.”
Ecco, questa risposta è emblematica di tale influenza sulla sua vita prima che sulla sua letteratura. Infatti se avesse indicato precisamente i libri sarebbe venuta meno all’insegnamento pragmatico dei Sufi che prescrive che ogni cognizione deve nascere da se stessi e che, se si è pronti alle scoperte, basta una semplice indicazione. Inoltre mostra che ogni autentica via spirituale si propone, come ineluttabile affinità, solo dopo avere già percorso da sé, spinti dalle proprie profonde ispirazioni e intuizioni, il cammino preparatorio. Senza contare la giusta dose di modestia.
Ho iniziato il resoconto da questa domanda, giunta a metà incontro, perché tutta l’intervista è stato un compendio di questo punto di vista filosofico pratico teso a smontare luoghi comuni e condizionamenti. Anche in considerazione del fatto che quasi tutte le biografie, compresa quella sintetica nella cartella stampa, tacciono su questo fondamentale punto del percorso della scrittrice, senza il quale non è possibile interpretare compiutamente le sue opere, né valutare nella sua interezza il personaggio umano.
Naturalmente ci sono stati frammenti di utili informazioni. Come la lezione sulle regole del racconto classico, come Mara e Dann, di prossima uscita da Fanucci, fondato sui tre punti, accettati da tutte le culture oltre a quella della filmografia di Bollywood: giovani in circostanze terribili che si salvano con la forza del carattere, sconfitta del personaggio cattivo, lieto fine. Le ipotesi sul perché la carriera dello scrittore abbia spesso andamento ondulatorio. L’opinione della scrittrice sulla difficoltà di definire univocamente i propri libri sospesi tra realismo e fantascienza. Sull’esperienza di Doris con il cinema quando da Memorie di una sopravvissuta (Lucarini 1986 – Fanucci 2003) fu tratto nel 1981 un film che, nel suo fiasco, aveva il pregio di avere come interprete Julie Christie (“Del resto il libro è troppo pieno di ‘immaginazione’ per poter sperare di poter essere ben tradotto in un film”). Sul fatto che le piace molto partecipare ai festival letterari perché si incontra gente che ama i libri.
Ma le chicche più interessanti, nel loro mostrarci quest’anima genuina di donna in ricerca, pronta a mettersi in discussione senza riserve, arrivano quando le viene chiesto del suo impegno politico e del suo lavoro intenso a favore dell’identità femminile, due pilastri della immagine corrente della scrittrice e, naturalmente, connotati importanti della nota biografica distribuita per l’occasione. Vale la pena riportare integralmente le risposte di Lessing sui due argomenti:
“E’ una grande leggenda che io sia una specie di Giovanna d’Arco e che abbia vissuto la mia vita con questo stile. E’ assolutamente falso. Ho detestato e detesto la ‘macchina’, gli ingranaggi della politica. La so troppo lunga per non sapere che questo genere di cose sono successe e sono ormai, come dire, scolpite nel marmo. Non credo ai grandi movimenti. Non ci credo più perché non durano e non sono efficaci. Non servono a niente. Credo invece all’impegno di breve periodo, specifico. Di piccoli gruppi politici che abbiano un obiettivo chiaramente definito. Per esempio in Inghilterra ci sono state lotte contro l’apertura di questa o quella base militare, contro la distruzione di questo o quell’ambiente naturale. I grandi movimenti per la pace, per l’amore, per l’uomo, per la donna, per i bambini, in favore del futuro o del passato, semplicemente non funzionano.”
“Non smetto di stupirmi sul fatto che le giovani donne dei nostri tempi mostrino di non sapere che fin dall’alba dei tempi le donne hanno vissuto nel terrore della gravidanza. Questa è stata la storia delle donne, ed è finita grazie alla contraccezione. Sono state liberate da questo terrore dal controllo delle nascite, come sono state per altri versi liberate dalla lavatrice e dall’aspirapolvere. Le giovani donne non si rendono conto che questa in realtà è stata la grande rivoluzione del nostro tempo. E questo fenomeno è avvenuto grazie alla scienza e alla tecnologia, non certo per merito dei grandi discorsi. Ho trovato un libro su una banchetto di libri usati. Lettere scritte da donne a donne appartenenti alla seconda generazione dei pionieri della Nuova Frontiera, non quelli che avevano combattuto gli indiani ma le figlie di questi. Di che cosa parlano queste lettere? Sono di nuovo incinta. Ho appena avuto un altro bambino. Il mio ultimo figlio è morto. Ho sentito dire che forse c’è un dottore che potrebbe evitarmi nuove gravidanze. Eccetera. Ecco, questa è stata la vita delle donne e sarebbe bene ricordarselo.”
Dimenticavo di dire che la mia domanda sul Sufismo, vista la sua relazione con l’Islam e i tempi che corrono, ha creato un certo disagio. Un addetto ai lavori mi ha persino sussurrato che forse l’autrice sarebbe stata infastidita da tale domanda. Naturalmente, come prevedibile, lei non ha fatto una piega. Al termine una gentile convenuta, che aveva posto diversi quesiti sulla sua opera, è venuta a chiedermi lumi sull’argomento della domanda, che non aveva capito molto bene, e su chi diavolo fosse questo Shah. Almeno questa è curiosità professionale.
Non so perché, ma mentre osservavo la nostra illustre ospite mentre si allontanava con la sua figura da adolescente con i capelli bianchi, mi sono ricordato improvvisamente l’immagine della fatina di Pinocchio nell’edizione illustrata che lessi da bambino e che ancora conservo gelosamente nel posto d’onore della mia libreria.