Mi capita spesso di risalire il versante sud dell’imponente massiccio che s’innalza per oltre duemila metri sopra le casette del piccolo paese di montagna dove vivo. M’incammino sempre al mattino presto o forse dovrei dire ancora in piena notte, visto che alcune volte ho perfino bisogno di accendere il frontalino elettrico per scorgere il sentiero. Risalgo velocemente nel più completo silenzio, non incontro mai nessuno. Passo dopo passo il cielo schiarisce e la vegetazione cambia: prima il pino silvestre, poi i mughi e infine solo la nuda roccia.

 

È mio obiettivo preciso arrivare sulla vetta prima che il sole sorga, prima che il mondo apra gli occhi e incominci a macinare. Mentre mi allontano dalla civiltà, la immagino come una serie d’ingranaggi, alcuni grandi, altri piccoli, che girano e fanno un baccano che cresce senza limiti, fino a diventare insopportabile. Quando arrivo in cima mi sembra di essere sulla Luna. È chiaro quanto basta per avanzare senza inciampare, non c’è un alito di vento e la linea dell’orizzonte passa dal blu scuro al rosso fuoco in una manciata di gradi.

 

Mi siedo sempre nello stesso punto, un pennacchio di roccia che sporge su un precipizio che fa paura anche ai camosci più coraggiosi. Quattrocento metri di vuoto verticale che mi separano dalla prima rada boscaglia e altrettanti di foresta che corre ripida fino alle prime luci della città, dove inizia il lento risveglio della società dei consumi, che si prepara a un altro frenetico giorno di pazzia collettiva.

 

Ci vado soprattutto il lunedì, per ricordare a me stesso che le scelte, quelle vere, portano lontano e non solo fisicamente. Essere lassù prima che tutto inizi, così in alto da coprire l’intera superficie abitata con una sola mano, mi da l’impressione di poter bloccare quel flusso impazzito di macchine e corpi, di poter gridare a tutti: “Fermi! Non fatelo! Non vedete quello che sta accadendo? Mettetevi in salvo prima che il fiume della frenesia e della iper-produttività vi travolga!”.

 

Dura solo pochi istanti, come quasi tutte le emozioni veramente forti della vita, e ogni volta non serve a niente. Ogni volta il lamento della società cresce inesorabile, lo sento contorcersi tra il frastuono dei motori a scoppio e nel martellare delle fabbriche. È nei milioni di voci che comunicano attraverso i telefonini e nei pianti dei figli abbandonati negli asili nido, mentre andiamo a produrre il superfluo. Rimbalza tra le mura dei palazzi e, filtrato dagli scheletri metallici dei tralicci, finisce per diventare un tutt’uno: quel sordo sottofondo che ribolle, ondeggia e non ci abbandona mai.

 

È la colonna sonora della schiavitù moderna.

 

Alla fine arriva anche qui, quasi duemila metri più in alto, dove i primi raggi di sole stanno già illuminando le mie logore scarpe da trial e iniziano a scaldare le rocce. Laggiù è ancora buio, ma il motore della produttività se ne frega del sole, dei cicli giornalieri; se potesse spremerci ventiquattr’ore su ventiquattro, lo farebbe senza il minimo ripensamento, e alcune volte lo fa.

 

Prendo il panino al formaggio, dopo mille metri di dislivello tutto è più buono, anche l’umore. Mangio in fretta, il primo sole mi fa sempre venire una gran voglia di correre, stringo bene le cinghie dello zaino intorno al ventre e all’addome, deve essere aderente al corpo così non oscilla durante le falcate. Do un ultimo sguardo alla vallata, alla città che ormai galoppa a pieno ritmo e via! Corro diritto lungo il massiccio che si estende pianeggiante per dieci chilometri verso sud, nella direzione opposta alla grande città. Lo percorro seguendo un piccolo sentiero che in alcuni punti segna creste strettissime, una vera e propria fuga, nemmeno tanto simbolica.

 

Quando si corre lassù, con la testa sgombra da tutte le inutili preoccupazioni legate alla frenesia del quotidiano, gli orari da seguire, le consegne da rispettare, l’aspetto da curare, il linguaggio da moderare, è come se ci avessero esportato un grosso sasso dalla scatola cranica, un tappo che non permetteva ai pensieri e alle domande di circolare liberamente. La fatica libera la mente, è come se lo sforzo ci permettesse di uscire da uno stato di apnea perenne, di mettere la testa fuori dall’acqua e finalmente respirare. Ecco perché mi piace tanto correre, perché è in quella particolare condizione, lontani dal modo “normale” di vivere, che affiorano le domande più scomode, quelle che prima non trovavano spazio o non avevamo il tempo di porci.

 

Qual è il senso di tutto questo? Perché era così difficile comprendere che il tempo a nostra disposizione è limitato, che nessuno potrà mai restituirci i giorni, i mesi e gli anni che abbiamo buttando al vento lavorando come forsennati, senza un attimo di tregua, senza uno scopo. Siamo malati terminali, ci hanno già diagnosticato morte certa, cosa importa se tra una settimana o quarant’anni. Il tempo passa inesorabile e nessuno sa meglio di noi quanto rapidamente. Sembra ieri che andavamo a scuola e oggi ci ritroviamo genitori, con l’affitto da pagare e nessuna prospettiva futura. Cosa abbiamo fatto negli ultimi dieci anni che non fosse lavorare, pagare bollette e guardare la televisione? Abbiamo realizzato qualche progetto, coltivato le nostre passioni, dedicato tempo alle persone che amiamo? Possiamo dire di essere stati veramente uomini e donne, padroni della propria vita e artefici del proprio destino o ci siamo limitati a seguire il copione che qualcun altro aveva scritto per noi?

 

Ma la domanda più importante, la spiazzante somma di tutti i dubbi esistenziali in cui possiamo addentrarci è una sola: “Siamo felici?”.

 

La prima volta che me lo sono chiesto ero quassù. È stata la meraviglia a far affiorare quel pensiero; l’incredibile energia che ho provato nel constatare che, grazie alla mia determinazione, avevo raggiunto un luogo che un anno e venti chili prima consideravo inarrivabile. Non sapevo se fosse più sconvolgente realizzare di non essermi mai posto quella semplice domanda, o essermi accorto così tardi di essere profondamente infelice. Il raggiungimento della felicità, l’unico scopo della vita di ognuno, il traguardo verso il quale ogni giorno dovremmo far convergere gli sforzi, è l’ultimo pensiero di ogni essere umano che si definisca “civilizzato”. Prima vengono i soldi, il successo e la carriera lavorativa, perché sono quelli i veri traguardi. Essere ricchi mentre due miliardi di individui muoiono di fame e risalire la scala sociale passando sui cadaveri dei nostri colleghi, come se il ruolo di “capetto” del “gruppetto” fosse l’unica cosa a darci una dignità, come se fosse vita.

 

Non è lì che si fanno i conti con se stessi, non è integrati nella società che si diventa liberi, non è la dimensione del nostro ufficio a stabilire quanto valiamo come persone. La resa dei conti si gioca quassù, spogliati di ogni carica e distintivo, soli con noi stessi, obbligati a trovare una risposta a quelle domande che ci spaventano, che abbiamo paura di pronunciare proprio perché sappiamo che ci condannerebbero ad ammettere che fino a oggi abbiamo sbagliato strada, che siamo dei falliti.

 

Chi ha il coraggio esca della società e affronti se stesso, a tutti gli altri auguro di non svegliarsi mai.

 

Francesco Narmenni

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