Patrizia Saterini si è diplomata in flauto traverso presso il Conservatorio di Musica “A. Pedrollo” di Vicenza. Ha poi intrapreso un lavoro di studio e di ricerca trentennale sulla musica carnatica e indostana, sia classica che semiclassica, con frequenti soggiorni in India.

Laureata in Tradizioni musicali extraeuropee a indirizzo indologico con una specializzazione in canto, ha coltivato inoltre la pratica della danza indiana bharatanatyam. Tiene seminari, conferenze e corsi in tutta Italia per diffondere e promuovere la conoscenza della musica e della danza indiana.

Insegna tecniche di consapevolezza sonora e corporea applicate all’arte scenica e cura progetti musicali che utilizzano i linguaggi della musica classica sia occidentale che orientale. Ha all’attivo numerosi concerti e produzioni discografiche nazionali e internazionali.

Per le Edizioni Il Punto d’Incontro, Patrizia ha pubblicato Musica indiana: teorie e approfondimenti da una  prospettiva occidentale. Cura il sito www.ashimamusic.com

musica indiana

 

 

 

 

 

 

Come mai un libro sulla musica indiana?

Sono una musicista classica occidentale. Quando mi sono avvicinata per la prima volta, trent’anni fa, alla musica dell’India, ho avuto immediatamente la sensazione che, al di là di ciò che stavo ascoltando, ci fosse molto altro che non riuscivo chiaramente a identificare. Ci ho messo anni a comprendere su quale vasto e sofisticato territorio musicale mi ero affacciata. Recentemente ho sentito l’esigenza di scrivere, in forma lineare e chiara, le informazioni assolutamente necessarie per potere comprendere la musica indiana, sia per presentarla a chi non la conosce sia per aiutare chi decide di intraprendere un percorso di approfondimento.

 

Cos’ha di così speciale la musica indiana?

Ha molte cose speciali! Innanzitutto il considerare il suono come una via, un sentiero… Tutta la musica indiana poggia sulla risposta emozionale, chiamata rasa (succo, essenza), prodotta dall’entità musicale, il raga. Uso il termine “entità musicale” perché è esattamente così: un’individualità composta da un insieme di suoni, gerarchicamente posizionati, adornata da “gioielli melodici”, con le sue frasi tipiche, la sua peculiare intonazione, il suo andamento, il suo carattere e colore. In effetti il termine stesso “raga” viene da una radice che indica la sua capacità di “colorare la mente”. Quindi il raga è proprio come un “individuo”, maschio o femmina, con la sua fisionomia, la sua personalità, i suoi indumenti. Lunare o solare, addirittura associato a una particolare fascia oraria. Il musicista può, attraverso la corretta esecuzione, “evocare” il raga che, a sua volta, produrrà il suo effetto nella forma di emozione. E qual è il fine di questa risposta emozionale? Di provocare un momento di rottura del normale livello di percezione e traghettare l’ascoltatore nella dimensione estatica.

 

Sta suggerendo che lo scopo della musica indiana sia di portare l’uomo all’illuminazione?

Certo! Dovremmo a questo punto cominciare a discutere circa quello che si intende con “illuminazione”… D’altra parte, considerando come le radici della musica indiana affondino nel canto vedico con le sue potenti formule mantriche, considerate in grado di influire sulla mente e sugli elementi di cui è costituito l’universo, non è difficile comprendere come una conoscenza così preziosa sia stata conservata e tramandata, condensandosi poi in una materia musicale il cui fine è la modificazione dello stato di coscienza.

 

Allora si potrebbe affermare che la musica indiana può a tutti gli effetti essere utilizzata come musicoterapia…

Assolutamente sì! Considero quello indiano l’unico sistema tradizionale musicale in grado di provocare precisi effetti sul corpo e la mente. Da anni in alcuni ospedali indiani è in atto una sperimentazione che prevede l’utilizzo dei raga quali proposte terapeutiche. E questo con risultati strabilianti…

 

In che modo la conoscenza della musica indiana può essere di aiuto a un musicista occidentale?

Il musicista occidentale impara a suonare con le mani. Il musicista indiano impara a suonare con il corpo. Nella concezione dell’arte indiana non c’è un divario così netto come da noi tra la musica, la danza e l’arte scenica. In India un danzatore impara a cantare e a riempire lo spazio scenico in un certo modo. Sono artisticamente figlia di molte madri e di molti padri. Savitri Nair, la quale mi ha letteralmente obbligata a diventare anche una danzatrice, mi diceva sempre: “Nessun danzatore può arrivare a un certo livello se non sa cantare. Dobbiamo imparare a danzare con la voce e a cantare con il corpo”. Come flautista, ricordo il senso di separazione tra me e lo strumento, il movimento delle dita quale fonte di modulazione sonora, la mancanza di connessione con il resto del corpo, come se non fosse necessario e in qualche modo dovesse servire unicamente a sostenere lo strumento. E poi, la schiavitù della partitura. Il suonare con gli occhi. Anche nei brani imparati a memoria c’era la visualizzazione della scrittura. Non mi sentivo una musicista ma piuttosto un’esecutrice. Quanto poco spazio per la creatività nell’eseguire un brano trascritto nei minimi dettagli dal compositore! La musica indiana, invece, prevede un apprendimento che passa soprattutto per l’ascolto e, inoltre, pone il musicista all’interno di un territorio delimitato dalle regole del raga che sta eseguendo, dove può muoversi liberamente e improvvisare. Poi, ho potuto constatare quanto lo studio della musica indiana possa modificare la propria capacità di ascoltare. L’uso dei microtoni affina l’orecchio musicale, il quale diventa in grado di percepire quello che prima era assolutamente inafferrabile.

 

Quali criteri ha seguito per la scrittura del libro?

All’inizio ho voluto presentare l’aspetto filosofico che sta alla base della musica indiana. Ritengo sia importante presentarla nel suo giusto contesto, cosicché possa emergere il quesito: “Perché fare musica?”. Ho poi trattato dei principali concetti della teoria musicale sia antica che “moderna”, la prassi coreutica, il concetto circolare del ritmo, la classificazione dei modelli melodici. Sebbene mi sia riferita principalmente al sistema indostano, cioè dell’India settentrionale, ho voluto inserire un capitolo sulla musica dell’India del Sud, la musica carnatica, la quale secondo alcuni musicologi è più aderente alla tradizione antica in quanto ha subito in minor modo l’influenza culturale derivata dalle invasioni musulmane. Poi, mi sono anche chiesta in che modo un manuale potesse essere fruibile da tutti. E la risposta è stata una serie di interviste davvero fantastiche rilasciatemi da importanti personalità della musica e della danza. Le ho inserite nel libro, mettendone una alla fine di ogni capitolo. I lettori le hanno molto apprezzate, anche perché tolgono al libro la pesantezza che potrebbe avere un saggio o un manuale, rendendolo piacevolmente discorsivo.

 

Pensi possa essere utile a musicisti di qualsiasi genere?

Certamente! Ricevo lettere e messaggi da jazzisti, musicisti classici, pop, folk. C’è chi ritrova la sua motivazione per il fare musica, chi trova nuovi spunti per l’esecuzione, chi le informazioni per creare contaminazioni e fusioni artistiche, chi riceve ispirazione e idee. E poi c’è chi vuole approfondire ulteriormente e chiede come fare. Non sono in molti a sapere che a Vicenza, all’interno del Conservatorio di Musica “Arrigo Pedrollo”, un tempio della musica classica, c’è un innovativo dipartimento di musica indiana che rilascia un diploma accademico di primo livello. Prevede un corso di studi triennale che, oltre alla pratica strumentale o vocale, include le materie teoriche: sanscrito, hindi, storia della musica indiana, indologia, etnomusicologia, teoria della musica indiana eccetera… Come materia principale si può scegliere tra canto, sitar, flauto bansuri, tabla, sarod, danza bharat natyam e danza katak.

Inoltre, vengono annualmente istituiti dei corsi liberi, riguardanti solo la materia principale, adatti a chi non è interessato ad intraprendere un corso triennale di studi con le materie teoriche, esami e quant’altro. Insomma, un’offerta formativa completa. In Europa c’è solo a Vicenza e a Rotterdam.

 

In che modo la musica indiana ti ha arricchito musicalmente e umanamente?

In molti modi: mi ha fatto crescere artisticamente, ha espanso la mia capacità di percepire i suoni e il loro colore, mi ha fatto sperimentare alcuni attimi di totale estasi, ha invertito completamente il mio concetto di musica, ha esaltato la mia capacità creativa. Ma, soprattutto, mi ha fatto capire quanto il fare musica non può partire da una posizione ego-centrata dove tutto ruota attorno alla figura del musicista in quanto divo, star, mito moderno. Nella musica indiana la prospettiva è esattamente all’opposto: il musicista viene rispettato per la sua capacità di perdere se stesso per permettere alla musica di emergere. Una lezione incomparabile….

 

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