Ho assistito ad un suo concerto all’Università a Parigi parecchi anni fa. La sala era piena e c’era molta aspettativa in quanto la famiglia Dagar è una delle più importanti casate musicali indiane, in possesso della conoscenza dell’antico stile dhrupad, andato quasi perduto dopo la caduta nei regni indiani in seguito all’avvento della democrazia e che Alain Daniélou, famoso musicologo francese, riportò alla ribalta dopo anni di ricerche per ritrovare i musicisti di corte superstiti. Quando Sayiduddin Dagar entrò nella sala, il brusio immediatamente azzittì e tutti si prepararono ad ascoltare con attenzione. Come da tradizione, il tampura iniziò a suonare e l’artista intonò il SA, la prima nota della scala e….. ci girò attorno per quasi venti minuti. La nota veniva sfiorata dall’alto, dal basso, timidamente picchiettata, solo “pensata”, battuta con forza per ritrarsi subito a qualche microtono di distanza e poi ritornarvi ghirigorando attorno, accarezzata, cantata con vigore o solo sussurrata, esplorata completamente nella sua orbita. Avendo avuto un lungo training di ascolto della musica indiana, per me era una vera delizia seguire l’impressionante maestria dell’esecutore attorno ad una nota sola. Ero affascinata dall’elaborata esposizione ma mi rendevo anche conto che la maggior parte del pubblico non era consapevole del meraviglioso ricamo creato dalla maturità musicale del cantante.
Ricordo lo sguardo allibito delle persone. Alcuni sgattaiolarono fuori dalla sala, alcuni diedero una veloce sbirciata all’orologio… ma altri chiusero gli occhi e lasciarono che la musica li pervadesse, senza la necessità di comprendere. E da lì, la magia…..
Gli racconto l’episodio e lui ride divertito.
Domanda: Tu hai molti studenti occidentali…
Risposta: Sì, ho molti studenti occidentali, sia in Europa che in India. Praticamente quasi solo studenti occidentali. E il problema oggi è che tutti vogliono imparare velocemente. Ma io non posso insegnare velocemente. Ho conseguito questa conoscenza con anni e anni di pratica. È così che si fa. Nella mia tradizione si dice che quando arrivi a 50 anni inizi a raggiungere la maturità musicale. Il motivo è che ci vuole molta esperienza: la mia è formata da quello che ho imparato sin da piccolo con 8-10 ore al giorno di pratica. Ci è sono voluto molto, molto. E non ci è stato permesso fare delle performance pubbliche prima di avere 25-30 anni.
D: Quanti anni avevi quando hai iniziato il training?
R: Avevo sei anni. A sei anni è difficile stare seduti. Così all’inizio ci facevano sedere per poco tempo, cinque minuti, poi quindici, poi venti, aumentando gradatamente. Ci facevano cantare una nota o due note. Ma queste dovevano davvero “entrare nelle orecchie” perché dovevamo sviluppare la memoria sonora. Nella nostra tradizione la conoscenza veniva tramandata oralmente, non c’era nulla di scritto. All’inizio ci assegnavano raga Bhairav per il mattino e raga Yaman per la sera. Praticavamo due raga. Non abbiamo mai smesso di praticare quei due raga. Nemmeno ora. Bhairav, Yaman, Yaman, Bhairav, Bhairav, Yaman … Poi abbiamo iniziato ad imparare differenti raga.
Prima di tutto bisogna sviluppare la capacità di sentire veramente il suono delle note, sviluppare il potere dell’ascolto delle note.
L’udito deve essere molto fine. A questo punto canta una nota e si muove attorno a quel suono, sfiorandone i “confini” con grande maestria.
D: Intendi i microtoni?
R: Sì, i microtoni.
In ogni movimento melodico c’è un significato, una sostanza. Ci sono raga e ragini. Raga è maschile e ragini è femminile. Al mattino puoi sentire chiaramente la caratteristica maschile di raga Bhairav. Ma passato il mezzogiorno cambia. Potrei dire che Bhairav è come parlare con il padre, Yaman è come parlare alla madre. Ci si rivolge in modo differente: oh, mamma… (intanto continua con degli esempi sonori: quando parla “al padre” usa le note del raga Bhairav; quando si rivolge “alla madre” si addolcisce in quelle di raga Yaman).
Dobbiamo imparare a parlare al raga. Dobbiamo arrendere noi stessi al raga, alla sua natura. Perché la musica è basata anche sulla natura e sul ciclo del tempo.
D: Questo concetto anticamente era presente anche nella nostra musica europea. Forse una delle attrattive per un musicista occidentale è entrare in contatto con una tradizione che ancora mantiene una stretta connessione con la natura…
R: Certamente! Bhairav è un raga del primo mattino. È connesso con il periodo proprio prima del sorgere del sole. Verso le 3-4 puoi percepire nell’atmosfera una sorta di luce. Questa è l’atmosfera del raga. Tu puoi cantare un raga in qualsiasi momento della giornata ma se lo canti nel suo momento è più efficace. Ogni raga ha un suo potere: può creare uno stato d’animo. È proprio questo il suo potere. Se voglio cantare Bhairav alla sera, non posso creare allo stesso modo la sensazione del sorgere del sole. Ad esempio in questo raga i movimenti melodici mostrano le varie fasi del movimento del sole mentre sorge. Dal buio (si muove vocalmente nelle note più gravi del raga), ecco i primi cenni di chiarore (gira attorno al re komal). Senti quanti re si possono eseguire (mi fa sentire i vari microtoni del re komal)… E quindi piano sorge il sole (qui sale sul Ga). Da noi tradizionalmente quando sorge il sole facciamo una puja, una offerta. C’è un piccolo recipiente con dell’acqua, alcuni fiori. Con la puja gentilmente offriamo l’acqua (scende con la voce nuovamente sul re komal mimando con la mano l’acqua che esce dal recipiente e scende a terra). Un primo RE è il sorgere, il secondo RE è la seconda posizione del sole e quando offri l’acqua che scende, allora c’è un altro RE.
D: In questo modo c’è anche una forte connessione con il movimento. Si sente che all’interno qualcosa sorge.
R: Sì. Quando accordiamo il tampura e intoniamo il raga, c’è una risposta. Le 22 shruti, i microtoni, rispondono. Basta anche solo una nota: risponderanno. Ci vuole davvero molto tempo per comprendere questo, anni. Imparare un raga ed eseguirlo sono due cose diverse. Ok, magari uno ha seguito un corso… Nelle Università in India a volte assegnano dei raga che sono difficili anche per musicisti professionisti. Va bene per alcuni raga comuni. Ma se in tre-cinque anni devi fare venti o trenta raga come è possibile? È solo teoria, non pratica. E la musica è pratica. Sia che si tratti di musica indiana che occidentale, che persiana… Finche non c’è il vero controllo, come si può cantare? Come si fa? Serve il giusto orecchio!
In Francia alcuni mi hanno chiesto di trascrivere la mia conoscenza. Ma io non conosco il sistema di notazione. Non scherzo! È così! Non so leggere il sistema di notazione indiana. Noi abbiamo imparato così, con il sistema orale. Anche il canto gregoriano, in occidente, si presumeva fosse tramandato oralmente. Mi hanno chiesto: “Come fai a cantare tutto questo senza partitura”? “A memoria”, ho risposto. Tutto è nella mente. Se ci chiedete di cantare un raga, immediatamente possiamo attingere da lì. Ho chiesto loro: “E voi come fate”? e loro “scriviamo, leggiamo ed eseguiamo”. Ho detto: “Ok, hai la partitura nelle mani ma allo stesso tempo come fai a sapere che stai cantando la nota corretta? Che sia la giusta altezza”? (si riferisce al fatto che nella notazione si può indicare il nome di una nota ma non la sua corretta altezza riferita al raga in quanto non si possono indicare le posizioni dei microtoni). Non puoi. Qualcuno mi ha detto: “cerchiamo la perfezione”. Io dico che la perfezione non si ottiene in una vita intera. La perfezione è l’ultima meta. Dopo c’è solo la pazzia. Quando accordiamo il tanpura, nel momento nel quale si raggiunge la perfetta frequenza, c’è una sorta di “rottura”. A volte accade che eseguendo un raga, si raggiunge quello stato e per qualche istante si tocca quella forma di “pazzia”.
D: Cosa intendi esattamente? Parlami di questa “pazzia”…
R: È perché sorge l’effetto. Mi succede che sto cantando un raga e accade. È una pazzia emozionale. Non significa che voglio diventare emozionale. Semplicemente l’atmosfera si trasforma, prende la via emozionale e quando cerchiamo di toccare quella nota, abbiamo le lacrime agli occhi. In genere le lacrime vengono per due motivi: per felicità o per tristezza. Questo è un terzo tipo di lacrime. Entro nel raga. La nota produce un forte effetto. Mi perdo…
D: È molto interessante che tu indichi una connessione tra la perfezione e questa “pazzia”. Una volta ho intervistato un danzatore di 75 anni e mi ha detto che la danza sorge quando il danzatore sparisce. Si chiama Chandrashekar.
Tu appartieni ad un lignaggio dove, grazie al cielo, la tradizione è mantenuta intatta. Ora che sei rimasto l’ultimo della tua famiglia, tutta la preziosa conoscenza della tua tradizione musicale è sulle tue spalle.
R: La mia è una attitudine dolce, delicata. Noi eravamo sette fratelli ed ora ne è rimasto solo uno: io. È una sensazione particolare. Mi sembra di non avere un rifugio. Vedi, nella nostra tradizione noi rispettiamo quelli che hanno più anni, come se fossero nostri padri e madri. Se uno dei fratelli maggiori mi diceva di fare una cosa, io la facevo. C’era grande rispetto. Allo stesso modo, ci rispettiamo tra musicisti. Lo stesso rispetto deve essere dato alle note e al raga. Ci si deve rivolgere al raga come a Dio. In questo modo puoi sentire il raga. Bisogna essere molto umili. Se cammini con il capo chino non cadrai e potrai sostenere il peso della tua musica sulle tue spalle. Psicologicamente ci hanno insegnato a essere umili. Nella musica serve molta disciplina.
D: Hai molti studenti occidentali e prima hai detto che non si può imparare velocemente. Con il tuo insegnamento come ti regoli con gli studenti occidentali?
R: Faccio nel mio modo, come ho imparato. Non posso cambiare le cose. Negli ultimi quattro anni ho tenuto dei lunghi seminari estivi.
D: Molti occidentali che vengono da te non sono bambini. Sono adulti che vogliono iniziare o approfondire. Come ti regoli con loro?
R: Sono venuto qui la prima volta nel 1989. Poi, nel 1999 ho visto che qualcuno voleva imparare da me. Abbiamo iniziato a fare delle lezioni individuali e collettive. La mattina e la sera erano lezioni in gruppo. Così ho iniziato a venire regolarmente un paio di volte all’anno.
D: Hai dovuto cambiare il tuo sistema di insegnamento, adattarlo per gli occidentali?
R: Qualcuno chiama le note do re mi fa, invece di sa re ga ma. Allora a volte uso il loro linguaggio. Poi “fisso” le note del raga. Ogni anno insegno anche in una accademia in Belgio, un posto bellissimo, dove si fanno dei lunghi seminari di musica indiana. Certo, in una settimana non è possibile imparare tutto ma è possibile fare qualcosa, anche se non in profondità. È possibile. Ho anche uno studente che mi fa da assistente. Cerco di far cantare, sviluppare la voce e soprattutto l’udito, la memoria musicale.
D: Sempre più persone sono attratte dalla musica indiana..
R: Sì, lo vedo. Anche chi non mi conosce, quando viene in contatto con questa musica, sente di voler conoscere, imparare. Vorrei chiedere a Dio di darmi ancora un po’ di vita. Io insegno ai miei studenti assieme ai miei figli. Allo stesso modo. I miei studenti sono parte della mia famiglia. Devo essere onesto. Se non lo sono, la musica mi abbandonerà: questo è quello che mi disse mio padre.
D: La tua conoscenza è così rara…
R: Io rispetto qualsiasi tipo di musica, anche quella che non capisco. Quando faccio un’esecuzione, prima di tutto eseguo le note lentamente. Nella lentezza cerco di dare le sfumature e il feeling del raga. Le note sono la vita del raga. Questa musica ti porta via…