Per decenni la nostra conoscenza dell’apparato digerente si è basata sul modello meccanicistico di tutto il corpo: mettevamo in bocca, masticavamo e inghiottivamo il cibo, poi lo stomaco lo scomponeva triturandolo con forze meccaniche aiutate da acido cloridrico concentrato, prima di scaricare la poltiglia omogeneizzata nell’intestino tenue, che assorbiva calorie e nutrienti e inviava la parte non digerita all’intestino crasso, il quale eliminava ciò che rimaneva espellendolo.

Questo modello ha influenzato generazioni di medici, inclusi i nostri attuali gastroenterologi e chirurghi. In base a tale visione, le parti malfunzionanti dell’apparato digerente possono essere bypassate o rimosse senza difficoltà e il sistema può essere riprogrammato per favorire la perdita di peso.

Si tratta perà di un modello eccessivamente semplicistico. Mentre la medicina continua a considerare l’apparato digerente ampiamente indipendente dal cervello, noi ora sappiamo che questi due organi sono intimamente connessi tra loro. Studi recenti suggeriscono che l’intestino, interagendo strettamente con i suoi microbi residenti, può influenzare le nostre emozioni di base, la sensibilità al dolore e le interazioni sociali e perfino guidare molte delle nostre decisioni, non solo quelle che riguardano le preferenze alimentari e l’entità dei pasti. La complessa comunicazione tra l’intestino e il cervello svolge ha pertanto un suo ruolo in alcune delle nostre più importanti decisioni.

L’intestino dispone di risorse che lo rendono superiore a tutti gli altri organi e possono perfino competere con quelle cerebrali. Possiede un proprio sistema nervoso, noto nella letteratura scientifica come sistema nervoso enterico o SNE e spesso menzionato dai media come “secondo cervello”.

Quando le emozioni vengono messe in scena nel teatro dell’intestino, è all’opera un complesso di cellule specializzate. Gli attori includono vari tipi di cellule intestinali, cellule del sistema nervoso enterico e i 100 trilioni di microbi che vivono nell’intestino; le implicazioni emotive della rappresentazione alterano il loro comportamento e i loro dialoghi chimici.

In uno studio il suo team ha somministrato a cavie da laboratorio i batteri probiotici del tipo Bifidobacterium infantis, così chiamati perché costituiscono uno dei primi ceppi batterici che una madre trasmette al figlio. Quindi i ricercatori hanno costretto i topi a nuotare, un’attività che questi animali odiano e che attiva il loro sistema di stress. Quando ciò accade i livelli di citochine, un tipo di molecola infiammatoria, si innalzano (la stessa reazione avviene negli esseri umani). Quando ai topi è stato somministrato un probiotico, esso ha indotto cambiamenti nel sangue e nel cervello, pur non modificando il comportamento “depresso”.

In un altro studio, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che un particolare ceppo di Bifidobacterium riduceva la depressione indotta sperimentalmente e il comportamento ansioso nei topi, allo stesso livello dell’antidepressivo comunemente usato.

In uno studio randomizzato in doppio cieco, alcuni ricercatori francesi hanno sottoposto per un mese cinquantacinque uomini e donne sani a un regime di probiotici quotidiani, contenenti specie di lactobacilli e bifidobatteri. I soggetti inseriti nel gruppo dei probiotici hanno mostrato piccoli miglioramenti della sofferenza psicologica e dell’ansia, rispetto a coloro che assumevano il prodotto di controllo.

In un altro studio, scienziati inglesi hanno somministrato una diversa specie di lactobacilli a 124 persone sane: il trattamento ha significativamente migliorato l’umore di quelle più depresse all’inizio dello studio.

Benché siano necessari esperimenti clinici di maggior portata per stabilire con certezza se i microrganismi probiotici possano contribuire ad alleviare la depressione, lenire l’ansia o influire sul benessere mentale, è possibile influenzare positivamente il dialogo cervello-intestino-microbiota prestando maggiore attenzione al modo in cui alimentiamo i nostri microbi intestinali.

 

Tratto da:

 

 

 

Image credits: T. L. Furrer/Shutterstock.com