Sai Baba visse realmente – non si tratta di un personaggio mitologico o inventato. Il santo visse tra noi in carne e ossa nel villaggio di Shirdi fino al 15 ottobre 1918 – il giorno della festa Dushera in cui egli lasciò il suo corpo (maha-samadhi) all’età di cento anni. Egli è stato, e lo è ancora, la forza vivente e penetrante che cambia e trasforma la vita di milioni di devoti, senza distinzione di religione – induisti, musulmani, sikh, cristiani o parsi.
Chi era Sai Baba? Che significato ha avuto la sua vita?
La sua origine è sconosciuta. Fu chiamato così da Mahalsapathy, un bramino che aveva in custodia il tempio induista di Shirdi e che appena lo vide lo chiamò “Sai”. Da allora fu conosciuto come Sai Baba, Padre Santo. Mahalsapathy divenne in seguito uno dei suoi migliori discepoli.
Sai Baba arrivò al villaggio di Shirdi nel distretto Ahmednagar di Maharastra quando aveva solo sedici anni. Viveva sotto un albero di nim e lo si vedeva costantemente seduto su una roccia a meditare. Per la gente normale che passava per la strada, poteva sembrare matto. Non ne capivano la grandezza e la santità. Non chiedeva mai nulla, ma non rifiutava quello che gli veniva offerto dagli abitanti del villaggio.
La prima volta che qualcuno capì che Sai Baba era una persona speciale fu quando avvenne un miracolo.
Alcuni giovani pastori stavano giocando sotto l’albero di nim dove era seduto Sai Baba. All’improvviso videro un grande cobra che con il capo sollevato puntava diritto a uno dei giovani. Tutti scapparono tranne quel ragazzo, paralizzato dalla paura. Sai Baba guardò e comprese il pericolo. Un secondo prima che il cobra potesse colpire, Sai Baba lo rimproverò dolcemente. “Perché vuoi fare del male a un ragazzo innocente? Vattene, per favore”. Il serpente si fermò, strisciò verso Sai Baba, chinò il capo ai suoi piedi in segno di rispetto e se ne andò. I ragazzi e due uomini raccontarono agli abitanti del villaggio la scena a cui avevano assistito.
Da quel momento Sai Baba fu trattato con un rispetto nuovo. Subito dopo questo incidente, Sai Baba si trasferì in un angolo tranquillo di una moschea dai muri di fango in rovina che chiamò Dwarkamai. Visse in questo edificio cadente, in compagnia solo di serpenti, pipistrelli e gufi. Durante il giorno, andava sempre a sedersi sotto l’albero di nim che egli chiamò il posto del guru. Mentre era in vita, fu fatto uno scavo su sua richiesta e sotto l’albero fu trovata una tomba composta da due stanze e illuminata da due lampade.
Col passare del tempo Sai Baba era sempre più conosciuto dagli abitanti del villaggio e qualche volta chiedeva dell’olio per le lampade del suo Dwarkamai. Un giorno, gli abitanti del villaggio glielo rifiutarono. Non li rimproverò, ma al crepuscolo se ne tornò silenziosamente alla sua fatiscente moschea. Alcuni curiosi lo seguirono e lo videro impregnare degli stoppini di cotone nell’acqua e accenderli. Non solo l’acqua bruciava, ma le lampade rimasero accese per tutta la notte, diffondendo un bagliore celestiale. Fu allora che gli abitanti del villaggio capirono che Sai Baba era un essere divino.
Sai Baba non predicò mai alcuna religione e non interferì mai nelle pratiche religiose dei suoi seguaci. Non gli interessava la loro casta, il credo, il colore o lo stato. Credeva solo nella legge divina dell’amore universale. Perciò non fondò una nuova religione o una nuova setta. Il suo Dwarkamai fu il luogo d’incontro di tutte le religioni, dove Sai Baba insegnava i valori di verità, di fede e di amore per meritare la salvezza eterna. Un solo filo conduttore guidava le sue azioni, le sue decisioni e tutte le sue parole: la determinazione nell’aiutare i suoi seguaci a elevarsi sopra le loro vite effimere per immergersi nella consapevolezza immortale del divino interiore. Egli fu la reincarnazione del concetto dell’amore universale, come è riportato da Krishna a Arjuna nel Ghita:
“Io sono lo stesso con tutti gli uomini. Per me non c’è nessuno migliore o peggiore.
Ma quelli che credono in me con devozione sono in me e io sono in loro”.